Prime note sulle nuove proposte del governo in tema di rappresentanza, contrattazione e diritto di sciopero
La calura estiva non sembra fermare le intenzioni del governo Renzi di procedere a una radicale ristrutturazione del mondo del lavoro, cominciata ormai un anno fa con la formulazione della prima parte del JobsAct; ormai sembra acclarato che al Pd piace approfittare di questi momenti di minore attenzione pubblica per gettare le basi di provvedimenti socialmente dolorosi.
Stavolta i fari sono puntati su altri tre pilastri del diritto lavorista: la libertà di rappresentanza sindacale, il diritto di sciopero e i contratti collettivi (CCNL). Attualmente ogni lavoratore può scegliere se e da quale sindacato farsi rappresentare, lo sciopero è un diritto individuale regolato solo nel caso dei servizi pubblici essenziali da norme già ampiamente restrittive, i CCNL costituiscono ancora lo strumento principale di garanzia contrattuale e salariale di settore.
Siamo al momento ad uno stato embrionale e dunque non abbiamo ancora a disposizione tutti gli elementi necessari per effettuare una valutazione completa ed esaustiva ma alcuni punti sembrano chiari fin da adesso:l’obiettivo è quello di imporre una soglia minima di rappresentanza per accedere alla contrattazione, limitare lo sciopero con procedure e sbarramenti numerici, passare dalla contrattazione di primo a quella di secondo livello (aziendale).
Non si tratta quindi di aspetti marginali o parziali del diritto del lavoro. Come poter mettere mano a questioni così spinose e da sempre di difficile intervento? Prima di tutto partendo con una campagna mediatica di denigrazione e propaganda per cui gli scioperi e le assemblee dei “sindacatini” sarebbero diventati la causa di tutti i disservizi pubblici e delle difficoltà aziendali, mentre il superamento dei vincoli imposti dai CCNL permetterebbe un rilancio produttivo proprio laddove l’occupazione stenta a decollare nonostante tutti i regali già fatti dal governo (vedi abolizione art.18 e decontribuzione fiscale) alle imprese, ad esempio al Sud. Un marketing politico che sicuramente saremo costretti a subire spesso nei prossimi mesi.
Si tratta di provvedimenti che, nel loro complesso, mirano a indebolire la capacità rivendicativa e salariale dei lavoratori, così come il JobsAct ha aumentato i rapporti di forza a favore dei datori di lavoro, ad esempio cancellando la possibilità di reintegro nei casi di licenziamenti illegittimi. Il fine è quello di eliminare i residui di conflittualità capitale/lavoro a favore dei primi nella convinzione che ciò risolverà tutti i problemi di un’economia stagnante come quella italiana. Purtroppo sappiamo che questa soluzione è peggiore del male che si propone di curare. Renzi si rivela così, più che un medico della crisi, come il carnefice dei diritti dei lavoratori.
Non è ancora ben chiaro quali sarebbero i livelli di negoziazione riservati ai sindacati rappresentativi, fatto sta che la discussione su questo punto sembra molto pretestuosa. L’accesso alla contrattazione nazionale è già limitata a poche sigle sindacali, mentre da quella aziendale sono escluse molto spesso quelle sigle ritenute scomode sebbene abbiano in molti casi ben più del 5% di iscritti. Molte spesso sono i rapporti di forza esercitati tramite lo sciopero a permettere ai sindacati non confederali l’accesso ai tavoli negoziali. E qua veniamo al secondo punto.
L’idea del governo sarebbe quella di limitare il diritto di sciopero solo ai casi in cui quest’ultimo venga approvato da una percentuale molto alta dei lavoratori (attraverso referendum interni all’azienda che consentirebbero l’astensione legittima dal lavoro con una maggioranza relativa di lavoratori favorevoli). Per ora se ne parla solo per quanto riguarda il settore dei servizi pubblici (p. es. quello dei trasporti), ma si sa come va in questi casi, una volta infranto il tabù il passo è breve verso la generalizzazione del provvedimento. Nei cosiddetti servizi essenziali già esiste una procedura alquanto complessa che impedisce di fatto la spontaneità e la libertà individuale di scioperare. Il trucco è semplice, piuttosto che negare il diritto tout court, lo si rende talmente farraginoso e burocratico da essere inesercitabile.
Perché rifiutare una soglia di sbarramento al 30-40% dei lavoratori favorevoli? Perché molto spesso la necessità di sospendere la prestazione lavorativa non riguarda tutti i lavoratori ma solo una parte di essi. Ipotizziamo di avere un’azienda che ha 10 impiegati, 10 operai e 10 facchini; questi ultimi sono sottoposti a condizioni contrattuali umilianti, come spesso avviene nella logistica. Nonostante la pessima condizione di lavoro e la necessità di esercitare pressione sul datore per modificare lo status quo si troverebbero quasi sicuramente impossibilitati a scioperare per una questione numerica. Con il risultato che all’azienda sarebbe consentito sfruttare la manodopera senza alcuna opposizione materiale. Il salario e i diritti diventano variabili affidate alla generosità padronale.
Lo stesso principio vale per la proposta di superamento dei CCNL. Il risultato, neanche celato, sarebbe quello di innescare meccanismi competitivi sui livelli salariali, una gara al ribasso tra lavoratori. In tal modo un operatrice di call center di Taranto rischierebbe di essere pagata molto meno di una sua collega di Cuneo. Con l’effetto di incrementare una dinamica di gabbie salariali informali, condannando il Sud a ruolo di periferia. O peggio, provocando un generale calo dei redditi da lavoro, vero nodo centrale irrisolto della crisi.
Si tratta dunque di un progetto pericoloso che prosegue nella direzione inaugurata dal JobsAct, ossia una rapina di salari e diritti. Stavolta però assume una certa centralità anche il ruolo sindacale. Renzi è stato fin da subito ostile ai sindacati, anche quelli confederali, superando di fatto lo schema concertativo (riforme in cambio di posti di lavoro) che ha per anni guidato i rapporti fra sindacati, imprese e Stato. Stavolta il fine è quello di anestetizzare qualsiasi pretesa conflittuale di questi ultimi, trasformandoli da organizzazione di parte in strumenti di controllo della manodopera. Niente sciopero senza una certa rappresentanza, niente rappresentanza se si è conflittuali.
Da parte nostra invece abbiamo sempre considerato il sindacato come uno strumento di organizzazione e non come un fine. I diritti sono e devono essere sempre dei lavoratori, soggetti in carne e ossa con bisogni e desideri che invece Renzi vorrebbe rendere invisibili di fronte a un’immagine falsamente felice e speranzosa del nostro paese.
Per questo motivo siamo rimasti perplessi di fronte alle recenti dichiarazioni del segretario della Fiom.Landini si dice favorevole a rimettere al voto dei lavoratori (tutti, anche quelli con contratti a termine e atipico) l’approvazione o meno dei contratti. D’altro canto però si dice anche disposto a una legge sulla rappresentanza sindacale che utilizzi come criteri il numero di iscritti e di RSU. La questione si fa un po’ tecnica ma racchiude una riflessione importante sulla democrazia sindacale. Le RSU vengono elette ogni 3 anni e solo dai lavoratori a tempo indeterminato. In tal modo si escludono tutti quelli con contratti a termine (ormai sempre più presenti), mentre vengono premiati i sindacati già presenti in azienda a discapito di quelli più recenti. Si tratta quindi di un meccanismo conservativo e corporativo, che ancora una volta non tiene conto degli avvenuti (e ormai stabilizzati) cambiamenti nella composizione del lavoro vivo e tende quindi ad impedire il cambiamento laddove richiesto dai lavoratori stessi.
Il tutto mentre sono stati da poco diffusi dati a dir poco allarmanti per la Cgil che registra un netto calo di tesserati e una pressoché totale assenza in quei settori fortemente connotati da lavoro precario e autonomo. Un sindacato fatto per la metà da pensionati che rischia di chiudersi in una sterile difesa di posizione per continuare a vivere di rendita sulle spalle dei lavoratori.
Il risultato? Uno scollamento sempre maggiore fra i corpi intermedi e il lavoro vivo, laddove l’invisibilità significa sfruttamento e isolamento, significa occultamento delle vere cause dei disservizi e della mancanza di lavoro. Il governo si è recentemente lamentato degli scioperi nei musei e nei trasporti, sostenendo che una tale sospensione del servizio sarebbe un danno per l’economia dell’intero paese. Nessuno però si è chiesto per quale motivo questi lavoratori avessero deciso di scioperare. Nei musei bolognesi le cooperative sono arrivate a pagare quasi 3,50 l’ora il personale, si tratta per caso di un salario decente? Il malfunzionamento dei trasporti romani è imputabile a un venerdì di sciopero oppure a una gestione clientelare, mafiosa e politica delle nomine e degli appalti?
Occorre dunque prepararsi ad un nuovo duro scontro con la consapevolezza che non saranno soluzioni di ripiego a salvare i lavoratori e le lavoratrici. Di recente, proprio intorno a questi temi, si sono aperte diverse strade di sperimentazione e coalizione che stanno provando a organizzare quelle forme del lavoro contemporaneo che non trovano spazio nelle vecchie strutture sindacali e, allo stesso tempo, a ricomporre tra di loro i diversi pezzi di classe. Ci sembra questa l’unica alternativa valida sul campo ed è in questa direzione che è necessario proseguire operando un salto di qualità nella proposta e nella mobilitazione, pena la perdita definitiva di qualsiasi barlume di democrazia sul lavoro.