“Anche se qualcuno sostiene che il PKK non è terrorismo non è così. Non dovrebbe esserci alcuna legittimazione verso il PKK con la scusa che sta lottando contro Daesh (ISIS, n.d.r.), non possiamo parlare di un terrorismo buono contro uno cattivo. Il PKK e il PYD (il partito curdo siriano del Rojava, n.d.r.) sono terroristi come Daesh e spero che gli amici europei abbiano la necessaria sensibilità su questo punto.”
Le parole di ieri del presidente turco, che a Bruxelles ha incontrato Junker, sono quanto meno preoccupanti. Palesano infatti la ormai trasparente strategia adottata da Erdogan e dall’AKP in Turchia, in seguito alle elezioni del 7 Giugno.
In quella data infatti, l’AKP (il partito di Erdogan), per la prima volta dopo quindici anni non ha ottenuto la maggioranza assoluta in parlamento, e non è stato in grado di (o non ha voluto) formare un governo di coalizione con altri partiti.
Per il presidente turco i principali responsabili di questo fallimento sono i filo-curdi dell’HDP, partito che, per la prima volta, ha superato lo sbarramento del 10% e ora siede in parlamento con 80 deputati.
L’attentato di Suruç e la fine della tregua
Il 20 luglio scorso, un kamikaze turco si è fatto esplodere al centro culturale Amara di Suruç, dove oltre 300 giovani socialisti TURCHI (e non curdi, come hanno riportato alcuni giornali italiani) stavano tenendo una conferenza stampa nella quale annunciavano di voler portare aiuti a Kobanê, città curdo-siriana, a pochi chilometri da Suruç. 33 ragazzi e ragazze persero la vita in quel sanguinoso attentato, che l’ISIS non ha, ad oggi, rivendicato.
Per l’HDP il messaggio degli attentatori è chiaro: “Chi sostiene i curdi nella loro lotta, finirà come i martiri di Amara“, ha dichiarato il co-sindaco di Suruç alla delegazione internazionale che, tra il 12 e il 17 Settembre, è stata sul confine turco-siriano per chiedere l’apertura di un corridoio umanitario tra Suruç e Kobanê, a cui ha partecipato anche il nostro Andrea.
Dopo il 20 Luglio, Erdogan ha ripreso la guerra al PKK, con la scusa della guerra al terrorismo, dichiarando inizialmente di voler combattere l’ISIS, ha compiuto più di una strage nelle regioni del Kurdistan turco.
L’obiettivo di Erdogan è quello di arrivare alle elezioni del 1 Novembre in un clima di guerra, puntando sui voti dei fascisti turchi (alias Lupi Grigi), per riottenere la maggioranza in parlamento e cambiare la costituzione per accaparrarsi più poteri e diventare, a tutti gli effetti, un dittatore.
Complice il silenzio della stampa mondiale e il tacito consenso dei governi occidentali (guai a complicare il delicato rapporto diplomatico con la nazione che vanta il secondo esercito più numeroso della NATO), Erdogan ha messo in campo l’esercito e le forze speciali più di una volta, e non, come dichiarato, per attaccare i “terroristi” del PKK, ma per attaccare i civili curdi.
L’assedio e la strage di Cizre
In poco più di due mesi, le vittime civili della scelta di Erdogan sono state decine, di cui 21 solo a Cizre: lì, per 8 giorni l’esercito turco ha imposto il coprifuoco, staccato acqua, elettricità, telefono e internet, piazzato cecchini sui tetti delle case, bombardato interi quartieri uccidendo chiunque si trovasse per strada. Qui, ma non solo, la Turchia ha violato palesemente ogni convenzione e trattato sui diritti umani, come ampiamente evidenziato nel Rapporto sulle violazioni dei diritti umani nella città turca di Cizre della delegazione dei Giuristi Democratici entrata a Cizre al termine dell’assedio.
Per il governo turco, a Cizre si è svolto un violento scontro tra PKK e esercito turco, ma i dati parlano chiaro: 21 civili uccisi, tra cui un neonato di 35 giorni, una ragazza di 18 anni lasciata morire in mezzo alla strada dall’esercito che ha bloccato l’ambulanza giunta in soccorso, e un anziano di 75 anni. Pericolosi terroristi, insomma.
Attacchi in Rojava?
Le dichiarazioni di Erdogan di ieri paventano un azione militare repressiva non solo contro il Kurdistan turco, ma anche in Rojava (il Kurdistan siriano), dove il PYD ha, dal 2013, iniziato un’esperienza di autogoverno basata sul modello di confederalismo democratico, e dove le forze armate del PYD, ovvero YPG (Unità di difesa del popolo) e YPJ (Unità di difesa delle donne), hanno fermato l’avanzata dell’ISIS verso l’occidente, coadiuvati dai raid aerei della coalizione internazionale.
Qualora l’esercito turco dovesse ufficialmente entrare in Rojava, come reagiranno i governi mondiali? Come reagiranno gli Stati Uniti, che, da un lato beneficiano di basi militari turche per i raid in Siria, e dall’altro dichiarano, tramite il portavoce del Dipartimento di Stato, John Kirby, che “non considerano il PYD un’organizzazione terroristica” e riconoscono l’efficacia della resistenza contro l’ISIS di YPG e YPJ?
Basta con le ipocrisie: per noi il quadro è chiaro, come ci è chiaro chi, in questa guerra, combatte per l’affermazione della propria identità, per conquistare e difendere la propria libertà e i propri diritti, e chi, invece, calpesta i diritti umani ogni giorno, viola i trattati internazionali, commettendo un genocidio, nel silenzio generale del mondo. È ora che l’Europa apra gli occhi, e condanni ufficialmente l’operato di Erdogan, che dovrebbe essere processato per le violazioni dei diritti umani perpetrate, non ricevuto con tanto di tappeto rosso nei palazzi del potere.