Pubblicato sul blog Paginedispari
Ci sono due metaforiche fotografie che messe una accanto all’altra stridono, ma che allo stesso tempo restituiscono bene il senso di ciò che è accaduto a Rimini nel corso della tanto discussa adunata degli Alpini. Nel primo fermo immagine vediamo esponenti della politica locale e rappresentanti dell’imprenditoria turistica che festeggiano il grande risultato dell’evento: 800 hotel a pieno regime, bar e ristoranti stracolmi, un giro di affari stimato intorno ai 168 milioni di euro; nel secondo ci sono lavoratrici di quegli stessi hotel ed esercizi che di questo enorme flusso di ricchezza hanno visto solo le briciole e, per guadagnarsele, hanno pure dovuto sopportare soprusi e molestie, con la richiesta esplicita di non fare troppo casino e, se possibile, di continuare a sorridere per non rovinare la festa. Una città contesa, dunque, tra chi, indifferente ad ogni altra considerazione, le assegna essenzialmente la funzione di produrre valore economico e chi invece vorrebbe viverci e lavorarci con dignità e nel rispetto dei propri diritti. La linea del genere come detonatore di questo conflitto.
Tanti nodi sono venuti al pettine, tante le variabili che si sono intrecciate: mercificazione del tessuto urbano, overtourism, sfruttamento del lavoro turistico e sessismo hanno dato vita a una miscela esplosiva in grado di produrre il piccolo terremoto politico a cui abbiamo assistito. Proviamo a prendere in considerazione alcuni di questi elementi e i nessi che li legano a ridosso dell’inizio della stagione estiva e delle contraddizioni che porta con se.
La violenza di genere è un fenomeno sociale e culturale, non una somma di comportamenti individuali
C’è un presupposto inaggirabile da cui è necessario partire. Le molestie sono state un fenomeno collettivo, non una mera somma di comportamenti individuali. Parliamo di circa 500 segnalazioni e quasi 200 testimonianze dettagliate che ci raccontano di eventi diffusi all’interno di tutto lo spazio urbano e lungo l’intero arco temporale della manifestazione, la mattina come nel corso della notte (ed è ragionevole pensare che si tratti solo della punta dell’iceberg). Difficile, perciò, parlare di fatti isolati e di mele marce.
Questo significa che tutti gli Alpini sono molestatori? Ovviamente no e nessuno, infatti, lo ha mai sostenuto. Detto ciò, continuare a negare che i fatti di cui si discute siano pienamente compatibili con l’atmosfera intrisa di cameratismo maschile tipica delle adunate significa negare l’evidenza. La realtà è che, durante questi eventi, si viene a creare un ambiente nel quale in tanti si sentono autorizzati ad attuare dinamiche da branco. Quando tante persone, spontaneamente e indipendentemente le une dalle altre, mettono in atto comportamenti dello stesso tenore significa che condividono credenze e valori riguardanti le relazioni sociali e di genere e che hanno in comune una visione su ciò che è lecito o meno fare in un determinato contesto. Significa che c’è un substrato sociale e culturale che sostiene e legittima quei comportamenti. Poi, che a Rimini nessuno sia intervenuto a frenare i molestatori, e che l’unica forma di delegittimazione nei loro confronti sia venuta dalle donne che, esponendosi, hanno denunciato pubblicamente, sono dati di fatto.
Invece, abbiamo assistito in queste settimane ad un continuo susseguirsi di prese di posizione tese a sminuire i fatti e la credibilità di chi li ha portati a galla con l’evidente obiettivo di depotenziare la portata delle denunce pubbliche, minimizzare l’accaduto e archiviare l’intera questione come mero problema di devianza, maleducazione o eccesso di goliardia (a seconda del grado di minimizzazione adottato).
Queste chiavi di lettura eliminano in maniera più o meno radicale dal dibattito pubblico ogni riferimento al contesto che ha permesso l’insorgere di quei fenomeni, e con esso ogni accenno alle responsabilità collettive, siano esse di carattere sociale, culturale o politico.
Profitti contro diritti nella città del turismo
Dal punto di vista sociale e politico, ciò che è accaduto nei giorni dell’adunata può essere letto in prima battuta come un forte attrito, manifestatosi a partire dalla dimensione di genere, tra due modi di concepire e vivere la città: la città merce ad uso e consumo dei turisti da un lato, la città intesa come spazio pubblico agibile e liberamente attraversabile dai suoi abitanti. Le trasformazioni del tessuto urbano e l’affermarsi di un modello turistico sempre più pervasivo tendono a generare una polarizzazione tra queste “due città”, che insistono sullo stesso territorio ma che sempre più spesso sono portatrici di bisogni diversi e che con sempre più fatica riescono ad integrarsi. Ciò a cui abbiamo assistito, durante quel fine settimana, non è altro, infatti, che una città messa a completa disposizione di un pubblico composto da circa 400.000 potenziali consumatori. Tra questi, molti hanno probabilmente pensato che i corpi femminili presenti sul territorio facessero parte del pacchetto, quasi fossero essi stessi beni di consumo di cui poter liberamente disporre. La scintilla è esplosa quando quei corpi, di fronte ad una compressione del proprio diritto di vivere liberamente lo spazio urbano, si sono ribellati. Bisogni conflittuali e non componibili si sono così scontrati: quello di un consumismo predatorio e intriso di machismo da un lato, quello di libertà e di sicurezza delle donne dall’altro. Ma come siamo arrivati a tutto ciò?
Qualcuno sostiene che, almeno da almeno un decennio, a Rimini, la figura del Sindaco intesa come Primo Cittadino, sia stata sostituita dal suo ruolo di Primo Imprenditore, talmente profonda è l’adesione alle priorità degli operatori turistici e l’identificazione tra i destini del territorio e quelli di tale categoria.
Non che non vi fosse, da parte delle precedenti amministrazioni, attenzione per questo aspetto. La storia del territorio riminese a partire dal secondo dopoguerra è una storia intimamente legata all’economia turistica, ma negli ultimi due decenni questo legame ha fatto un salto di qualità.
La Riviera Romagnola è stata infatti letteralmente costruita da una classe dirigente di sinistra, la cui cultura politica ammetteva l’esistenza di interessi conflittuali all’interno della società. Ci si preoccupava, dunque, di governare, attraverso un complesso sistema di mediazioni e compensazioni, queste contraddizioni per evitare eccessivi squilibri nella distribuzione di costi e benefici tra le diverse aree e componenti del territorio.
Oggi, è emersa in seno al Partito Democratico una nuova generazione di amministratori che ha rinunciato a rivestire un ruolo politico, per dedicarsi quasi esclusivamente al marketing territoriale. L’unica linea politica rintracciabile nel suo modo di operare sembra essere quella di vendere il territorio un tanto al chilo. Si assiste così ad una sovraesposizione mediatica degli stessi sindaci, che propongono l’immagine di una Rimini da cartolina, patinata e priva di contraddizioni, con l’unico scopo di renderla sempre più attrattiva per i turisti.
Poi, all’improvviso, un grande evento condensa in un ridottissimo lasso di tempo tutte le contraddizioni di questo progetto di sviluppo territoriale, rendendo palese che trasformare un’intera città in un parco divertimenti, senza tener conto di chi la abita, può avere dei costi sociali. Accade così che la tensione tra uso turistico intensivo della città e vivibilità della stessa esplode e, quando ciò avviene, il gruppo dirigente locale, con il giocattolo rotto tra le mani, si mostra del tutto privo di un bagaglio politico adeguato a gestire la situazione. Le reazioni scomposte e imbarazzate (oltre che imbarazzanti) del post-adunata mostrano tutta questa impreparazione. Scatta allora il riflesso condizionato della mentalità imprenditoriale: il cliente ha sempre ragione. E di qui è tutto un solidarizzare con… gli Alpini. Il sindaco in persona interviene con un comunicato pieno di se e di ma che, prendendo le distanze dalle molestie, di fatto sconfessa l’operato di Non Una di Meno, accusata di voler strumentalizzare la vicenda. Tutto pur di non macchiare la bella cartolina di Rimini.
Una società che non vuole fare i conti con se stessa
Il conflitto latente sulla produzione e fruizione dello spazio urbano ha incrociato la questione drammaticamente attuale della violenza maschile sulle donne. Questo intreccio ha prodotto una sorta di reazione e offerto ad una controversia locale una immediata proiezione nazionale, trasformandola in un lacerante caso politico.
I dibattiti accesi, la veemenza dei commenti, le pressioni e le intimidazioni subite dalle donne e attiviste e i vari tentativi di minimizzazione dimostrano chiaramente che la violenza di genere è un nervo scoperto della nostra società. Ampi settori di questo paese mostrano ancora un certo livello di tolleranza nei confronti di atteggiamenti sessisti, molestie e comportamenti violenti evitando di riconoscerli in quanto tali, o considerandoli tuttalpiù meri eccessi di pochi devianti (pensiamo alla retorica del raptus o del mostro quando avviene un femminicidio).
Ciò avviene in particolar modo quando tali pratiche sono agite da maschi bianchi. Gli stessi comportamenti diventano invece maggiormente stigmatizzabili quando a commetterli sono uomini migranti o comunque non bianchi. La lente attraverso cui la violenza viene letta ed interpretata non è quella del sessismo, ma quella della razza. Si tratta di una cornice interpretativa evidentemente fuorviante che, in ultima istanza, difende l’attuale assetto sociale patriarcale e impedisce di metterne a nudo la natura intrinsecamente violenta, normalizzando le violenze perpetuate dai maschi bianchi. Nell’intersezione di genere e razza infatti, l’unica violenza sulle donne che viene creduta come tale è quella compiuta da uomini neri su donne bianche, per cui le uniche relazioni di genere ammesse alla critica sono quelle in cui l’uomo violento non è bianco.
Una particolare concatenazione di eventi ha fatto in modo che questo intreccio tra violenza patriarcale e razzismo si palesasse proprio a Rimini nei giorni immediatamente successivi all’adunata. L’arresto di un giovane di origine somala, in seguito ad un tentativo di stupro in un parco, ha scatenato sui giornali di destra e sui social network una ridda di commenti di ogni genere.
Molti di coloro che si stracciavano le vesti contro le generalizzazioni nei confronti degli Alpini non sono riusciti a trattenersi quando a dover essere stigmatizzati indiscriminatamente sono stati gli stranieri. La linea argomentativa in queste situazioni è sempre più o meno la stessa.
Viene proposta una dicotomia artificiosa e fallace tra due alternative che si escludono a vicenda: se denunci una violenza allora legittimi automaticamente l’altra. Alla fine della fiera la responsabilità morale di questo tentativo di stupro viene scaricata dalla folla social inferocita sui collettivi femministi, rei di essersela presa con gli Alpini invece di occuparsi della “vera” violenza. Attraverso questo fittizio ordine di priorità, la rilevanza di un problema – le molestie di massa nel corso dell’adunata – viene sminuita sulla base dell’esistenza di un altro problema presentato come più grave – il tentato stupro. Ciò che viene escluso a priori è la possibilità di un contrasto alla violenza di genere in quanto tale.
In sintesi, potremmo sostenere che gli eventi dell’adunata hanno messo la nostra società di fronte ad uno specchio e, siccome l’immagine riflessa non è risultata particolarmente edificante, è partita la corsa da parte di molti uomini (ma anche donne) a smarcarsi, negare l’evidenza, inventarsi fantomatici infiltrati, minimizzare i fatti, colpevolizzare le vittime, spiegare alle donne o alle persone non conformi cos’è la violenza, trovare surreali giustificazioni, spostare l’accento sulla violenza commessa da un migrante. Insomma, una società ancora pervasa da forti dosi di maschilismo e privilegio bianco che, alla prova dei fatti, si è mostrata più incline all’autoassoluzione che alla riflessione critica.
Quando autorganizzazione e solidarietà rompono gli schemi
A fronte di una parte di società refrattaria al cambiamento, ce n’è un’altra che invece ha deciso di sfidare apertamente il portato di violenza della cultura patriarcale. Non saremmo qui a parlare di adunate, Alpini e molestie senza le donne che con coraggio hanno deciso di esporsi, denunciando pubblicamente ciò che è avvenuto nelle piazze, nelle strade e nei locali della città. E se a raccogliere e restituire all’esterno quelle testimonianze non ci fossero state realtà organizzate attive da anni come Non Una di Meno, Pride Off e Casa Madiba Network. Protagonista indiscussa della vicenda, dunque, l’autorganizzazione transfemminista. Negli ultimi anni, le lotte contro la violenza, i nuovi movimenti femministi e LGBTI+ hanno sedimentato sensibilità e pratiche solidali, dando vita a processi culturali e sociali sotterranei che, anche durante la pandemia non si sono fermati. Quando i nodi sono poi venuti al pettine, questi percorsi sono stati in grado di riemergere e assumere una straordinaria potenza politica.
I rimescolamenti nel quadro politico ne sono la perfetta rappresentazione. Se è vero che il PD riminese ha assunto posizioni discutibili, è altrettanto vero che in tanti e tante in quello stesso partito hanno preso le distanze. La sua stessa base locale non è così compatta, e a livello nazionale c’è stato uno scostamento dalle prese di posizione del Sindaco. Ne sono la prova le forti dichiarazioni dello stesso Ministro Guerini e l’interessamento alla vicenda da parte di alcune deputate che hanno portato la vicenda in parlamento.
Di fronte al montare della mobilitazione anche l’Associazione Nazionale Alpini, che per bocca del suo presidente aveva in un primo momento parlato di “episodi di fisiologica maleducazione”, ha dovuto effettuare delle rettifiche e alcuni passi indietro. Nelle scorse settimane sono state poi le dichiarazioni di un Alpino di alto rango come il gen. Figliuolo che condanna le molestie senza se e senza ma e prende in considerazione la necessità di “approfondimenti culturali”, ammettendo la natura possibilità che si tratti di un fenomeno strutturale.
L’adunata ha dunque sollevato una serie di problematiche che, se riguardano nello specifico il corpo degli Alpini e la sua struttura associativa, allo stesso tempo rimandano a questioni di carattere più generale. Quel momento collettivo ha perciò rappresentato una sorta di cartina tornasole delle linee di frattura che attraversano la società e la nostra città nel suo complesso e su cui, potenzialmente, possono innestarsi nuove forme di conflitto. Per questo è importante metabolizzare e continuare a riflettere su ciò che è successo durante l’Adunata, senza però fossilizzarsi su di essa, anzi proprio per andare oltre l’adunata per continuare a costruire la città transfemminista e della cura.