Scriviamo queste righe per condividere riflessioni ed emozioni che stiamo provando ad elaborare collettivamente dopo la morte di Muhammad Sitta la notte di capodanno a Villa Verucchio.
Lo facciamo dopo esserci pres del tempo per informarci, parlare con persone del posto, e ragionare al di là della superficialità del clamore mediatico, interessato più alla notizia da vendere che alle vite delle persone coinvolte.
Nel prendere parola ci teniamo ad esprimere la nostra vicinanza tanto ai genitori di Muhammad che piangono la morte del figlio quanto alle persone che sono state accoltellate e agli e alle abitanti di Villa Verucchio che si sono trovat a vivere un’esperienza terribile. Fatti del genere lasciano inevitabilmente delle ferite profonde in chi li ha vissuti, in una comunità, su un territorio. Queste ferite, a nostro avviso, necessitano di processi di cura collettivi e non di vuoti slogan.
Da anni operiamo sulla marginalità sociale, sappiamo come questi contesti siano intrisi di traumi e sofferenze che a volte trovano nella violenza l’unico modo per esprimersi ma crediamo che l’unica strada percorribile sia quella della costruzione di autonomie, di uscita dalla marginalità imposta e subita. Si tratta di percorsi difficili, spesso contraddittori e mai lineari ma che meritano di essere messi in campo, sempre.
I fatti sono noti. La sera di Capodanno a Villa Verucchio, in provincia di Rimini, Muhammad, ragazzo di 23 anni di origine egiziana ospite di una struttura SAI del paese, ha accoltellato 4 passanti in strada senza un apparente movente, fino all’arrivo dei carabinieri della stazione locale che hanno aperto il fuoco, uccidendolo.
I giornali nazionali hanno dato immediato risalto alla notizia nei primi giorni, avvicinandola ad altri episodi di attacchi contro persone negli spazi pubblici, sebbene si chiarirà in seguito che non c’è alcuna correlazione fra fatti molto diversi tra di loro.
L’accostamento però contribuisce a costruire subito una narrazione molto precisa: Mohammad sparisce come persona e diventa l’esemplificazione di una serie di stereotipi e paure. Ci si concentra sull’origine e sulla fede del ragazzo. Il Corano o un tappetino per pregare diventano indizi inequivocabili di una radicalizzazione su base religiosa. Perché a quegli oggetti e non ad altre condizioni è stato dato un peso così rilevante?
Gli esponenti del Governo non hanno perso tempo, ancora prima dell’accertamento dei fatti, per elogiare l’operato delle forze dell’ordine. La sinistra locale invece tace, forse perché affrontare politicamente situazioni come questa è ben altra cosa di postare sui social qualche foto dell’ennesima iniziativa mondana.
Ma chi era Mohammad? Perché un ragazzo di 23 anni può compiere un gesto così distruttivo? Come reagire davanti a un trauma del genere?
Col passare dei giorni la cronaca locale ha iniziato a far trapelare altri elementi che delineano una situazione molto diversa da quella tratteggiata inizialmente.
Mohammad era arrivato dall’Egitto nel 2022 come rifugiato. Non aveva mai dato particolari problemi ma negli ultimi mesi, raccontano gli altri ragazzi che vivevano con lui, aveva manifestato un forte disagio psico-emotivo, desiderava tornare a casa, ma si sentiva inascoltato, abbandonato. Pare avesse espresso il bisogno di fare qualcosa di eclatante per farsi sentire.
Come è possibile allora che nessuno sia intervenuto? Perché il tema della salute mentale resta un tabù in un paese dove neanche la pandemia è servita per invertire la rotta dei tagli ai servizi di welfare e salute?
Conosciamo bene tutti i limiti del sistema dell’accoglienza, li viviamo sulla nostra pelle e proviamo a contrastarli. Inutile nasconderlo, spesso si tratta di una macchina che produce marginalizzazione, volta a tenere le persone prigioniere della loro condizione.
Non intendiamo puntare il dito sulle operatrici e sugli operatori o sulle Cooperative coinvolte, non sono loro a decidere programmi e fondi per l’accoglienza, ma i Governi. In questi anni sono stati smantellati tutti i finanziamenti alle attività sociali nei centri, e questo ha praticamente azzerato, ad esempio, tutti i programmi finalizzati ad andare al di là della semplice riproduzione della nuda vita marginalizzata.
Le cooperative e chi lavora in questo settore si trovano poi costretti a mettere una pezza a troppi buchi. Bisognerebbe invece alzare la voce, battersi per un’accoglienza diversa che non scarichi sui territori e sulle lavoratrici e lavoratori sociali, spesso precari e sottopagati, tutte le conseguenze di questa macchina di marginalizzazione. Invece aumentiamo le spese belliche e tagliamo su educazione e welfare, salvo poi promettere che Zone rosse e tolleranza zero risolveranno magicamente tutti i problemi sedimentatisi.
È molto più semplice, infatti, pensare che sia tutto un problema “culturale” invece che “sociale”, che ci sia qualche religione, qualche razza, qualche provenienza più pericolosa di altre, meno civilizzata delle altre.
Il primo di gennaio tutti gli altri rifugiati ospiti della stesso appartamento di Muhammad sono stati interrogati e trattenuti diverse ore in caserma, alcuni ci hanno segnalato che in paese l’atteggiamento nei loro confronti è cambiato: sospettoso, minaccioso. Si è diffusa la voce, tanto ridicola quanto allarmante, che sia operativa una cellula di Hamas; un fatto che mette in evidenza non solo la mancanza, banalmente, di una conoscenza minima dei mille volti del cosiddetto islam politico, ma anche di come mesi di criminalizzazione mediatica della solidarietà con la Palestina siano serviti a creare nuovi immaginari razzializzanti nell’opinione pubblica. Lo diciamo con altre parole: siamo convinti che l’islamofobia sia attualmente il marcatore razziale più forte all’interno di un crescente clima di razzismo e securitizzazione. Ricordiamo bene, ad esempio, le parole di quel fascista di Vittorio Feltri che poco più di un mese fa rivendicava pubblicamente il desiderio di “sparare in bocca a tutti i musulmani in quanto razza inferiore”. Non ricordiamo, purtroppo, alcuna presa di posizione o intervento di condanna da parte di esponenti del governo. Questa banalizzazione del razzismo non fa altro che alimentare il desiderio di misure restrittive buone solo a privare anche noi stessi di spazi di libertà, per vivere senza paure, per organizzarci e lottare contro le nostre vite precarie, per costruire relazioni di cura reciproca.
Non bisogna mai perdere di vista le specificità: Muhammad Sitta era diverso da Moussa Diarra o da Ramy Elgaml, per citare altri due episodi in cui la razzializzazione ha giocato un ruolo determinante. Ma in tutti questi casi ci sembra evidente che la vita razzializzata conti meno, molto meno di quella bianca. Se al posto di Muhammad ci fosse stato un nostro conoscente, un nostro amico, come avremmo reagito?
Dietro queste tragiche vicende però ci sono persone con le loro storie che ogni volta faticano a emergere. Nel caso di Ramy abbiamo visto come solo la caparbietà nel tenere viva l’attenzione pubblica ha permesso di aprire una possibilità verso la verità. Quante altre storie sono invece rimaste taciute, invisibilizzate, dimenticate?
Nel suo ultimo report, la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza ha denunciato l’esistenza di pratiche di profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine italiane, concepite come una forma di razzismo istituzionale, e la crescente xenofobia del discorso pubblico nel nostro paese.
Si tratta di forme di razzismo che molte delle persone con una storia di migrazione che attraversano i nostri percorsi hanno sperimentato, purtroppo, ripetutamente. Perché la loro parola resta sempre inascoltata, delegittimata, marginalizzata?
Contro Muhammad sono stati esplosi 12 colpi, 5 dei quali lo hanno colpito direttamente alla testa e al busto. Ci chiediamo se fosse necessario colpire così, per uccidere, o se si potesse fare altrimenti.
La nostra impressione è che non si tratti di episodi isolati, piuttosto iniziamo a fare i conti con problemi che per troppo tempo abbiamo ignorato, pensando che potessero restare confinati ai bordi delle nostre vite bianche.
In un paese dove si esulta per la morte di chi è etichettato come “arabo”, “nero” o “immigrato”, dove la cittadinanza è ancora un privilegio di nascita in un mondo caratterizzato dalle migrazioni, dove le periferie delle città sono un marchio indelebile invece che un luogo in cui vivere dignitosamente, la razzializzazione e la marginalizzazione non possono essere risolte a colpi di decreti, zone rosse e polizia, queste misure non faranno che acuire la violenza agita e subita.
Alle politiche securitarie crediamo vadano opposte politiche della cura, volte a creare autonomia dalla marginalità, relazione invece di isolamento, incontro invece di barriere. Non diciamo che sia facile o senza problemi, ma è l’unico modo per restare noi stessi umani continuando a riconoscere nell’altro una persona e non un mostro, un nemico.
Per questo convochiamo un’Assemblea Pubblica PER MERCOLEDÌ 15 GENNAIO ALLE ORE 18.30 DURANTE LE ATTIVITÀ DELLA MOSTRA MERCATO I & LE CUSTODI DEL CIBO, uno degli spazi di vita nati dentro l’ecosistema di Casa Madiba, che rappresenta un supporto molto importante per lo sviluppo di relazioni e l’attivazione delle persone senza casa o rifugiate nel nostro territorio.
Casa Madiba Network