Cosa vuol dire essere migrante? Qual è l’esperienza di chi abbandona tutto quello che conosce e che gli è caro per spostarsi in un paese straniero, a migliaia di chilometri da casa? Come vengono accolte queste persone in Europa e a Rimini? È possibile pensare che intraprendano il loro viaggio a cuor leggero, che sia una cosa di poco conto?
A questi e ad altri interrogativi abbiamo cercato di rispondere, dando voce a chi ha attraversato a piedi dall’Asia la Rotta dei Balcani e può darci degli elementi in più per riflettere e cercare di capire le ragioni delle migrazioni e per puntare una lente di ingrandimento sulla condizione che vivono una volta arrivati in Europa.
Ci siamo sedutə a un tavolo con quattro persone che hanno percorso a piedi questo lungo viaggio dal Pakistan e dall’Afghanistan e ci siamo fattə raccontare quello che hanno vissuto durante il cammino, i sogni che li hanno portati in Europa prima e in Italia poi, come e dove vivono adesso e come stanno affrontando le difficoltà della loro nuova vita a Rimini.
Di seguito le storie di Enam, Museef, Safi e Ayoubi.
Il viaggio di Enam
Enam, un ragazzo di trentuno anni proveniente dal Pakistan, ha vissuto un’odissea che lo ha portato a cercare rifugio in Italia. La sua vita viene stravolta quando un gruppo di talebani accusa la sua famiglia della morte di due bambini. La ritorsione è spietata: i talebani uccidono sua madre, suo padre e uno dei suoi fratelli, mentre un altro fratello rimane gravemente ferito. Da quel momento, Enam non avrà più sue notizie. L’unico che è riuscito a salvarsi è Enam, che si è trovato costretto a fuggire. Da quel momento è iniziato per lui un viaggio durato due anni e mezzo, pieno di difficoltà e pericoli. La prima tappa è l’Iran, dove rimane per quattro mesi. Qui ha visto persone rapite per ottenere riscatti, ma a lui questo trattamento è stato risparmiato perché non aveva una famiglia che potesse pagare. Per sopravvivere mangiava foglie e molto spesso non aveva acqua da bere. Il cammino era estenuante, dormiva poco e viveva in condizioni al limite dell’umano. Attraversando la Bulgaria, è stato catturato dalla polizia, nota per la sua violenza: “sono stato picchiato di brutto” ci racconta. Nonostante tutto, è riuscito a proseguire e, una volta raggiunti i confini italiani, ha affrontato una nuova sfida: non sapeva dove andare né cosa fare. Arrivato a Rimini, ha incontrato alcuni connazionali che gli hanno suggerito di rifugiarsi a Casa don Gallo, dove ha finalmente trovato un tetto sotto cui ripararsi e un po’ di pace. Nonostante la gratitudine per l’accoglienza ricevuta, ammette che si aspettava di trovare più opportunità in Italia, una vita migliore rispetto a quella che vive attualmente.
Enam spera di poter costruire una nuova vita qui: trovare un buon lavoro, una moglie con cui costruire una famiglia e sentirsi al sicuro e incluso nella comunità italiana. Ha studiato molto e conosce sette lingue, ma senza documenti trovare un lavoro stabile è quasi impossibile. Chiede aiuto alle istituzioni per ottenere i documenti necessari, così da poter finalmente lavorare e vivere dignitosamente.
Il viaggio di Museef
Museef ha lasciato l’Afghanistan alla ricerca di sicurezza e opportunità. Oggi, a ventiquattro anni, racconta di un viaggio iniziato dieci anni fa, quando era solo un adolescente di quattordici anni.
In Afghanistan, la vita di Museef era diventata insostenibile a causa di una faida familiare per delle terre. Questo conflitto ha portato alla perdita di due fratelli, del padre e dello zio. Di fronte a questa situazione, Museef è stato costretto a fuggire ed è stato l’unico della sua famiglia che è riuscito a mettersi in salvo.
Il viaggio di Museef è stato lungo, ha trascorso un mese vivendo per strada, esposto a numerosi pericoli. Ricorda le violenze subite da parte della polizia iraniana e bulgara, a causa delle quali è anche ricorso alle cure ospedaliere. Spesso derubato e maltrattato, ha dovuto affrontare enormi difficoltà, muovendosi per lo più a piedi. Prima di arrivare in Italia, ha vissuto per otto anni in Germania. Durante questo periodo, ha frequentato la scuola ma, nonostante i suoi sforzi, non è riuscito a ottenere i documenti necessari per regolarizzare la sua permanenza. La mancanza di documenti lo ha lasciato in un limbo, senza la possibilità di costruirsi un futuro stabile.
Giunto in Italia, le speranze di Museef di una vita migliore sono state in parte deluse. Nonostante abbia ottenuto un permesso di soggiorno, questo non gli permette di accedere a un lavoro stabile e ben pagato. Attualmente vive in un edificio vicino a Casa don Gallo, una sistemazione precaria priva di luce e acqua e ci racconta che non è certo il posto in cui si aspettava di vivere dopo un viaggio così difficile.
Museef nutre ancora speranza, spera di trovare un progetto di accoglienza che gli garantisca una vita dignitosa e un lavoro meglio retribuito. Dopo nove anni di incertezze e privazioni, la sua priorità è ottenere i documenti che gli permettano di vivere in sicurezza e lontano dai pericoli che hanno caratterizzato la sua vita fin da piccolo.
Il viaggio di Safi
Safi ha ventiquattro anni e viene dall’Afghanistan. Da tre anni vive in Italia, ma il suo viaggio verso una vita migliore è iniziato molto tempo fa. Ha lasciato il suo paese all’età di quattordici anni, spinto dalla speranza di trovare sicurezza e nuove opportunità lontano dalle minacce che incombevano sulla sua famiglia.
In Afghanistan la collaborazione del padre e del fratello con la polizia li aveva messi in grave pericolo. Suo fratello e suo padre sono stati uccisi e Safi, insieme alla madre e al resto della famiglia, è fuggito in Iran. Ma Safi ha capito presto che doveva continuare a muoversi per trovare un luogo sicuro che gli permettesse di aiutare economicamente la famiglia.
Nonostante le incertezze e la paura di viaggiare da solo è arrivato in Germania, dove è rimasto per quasi cinque anni, senza però ottenere i documenti. Ha deciso così di trasferirsi in Italia, sperando in un esito diverso che avrebbero potuto garantirgli una vita più stabile. Qui è riuscito ad entrare in progetti di accoglienza, seppur precari e temporanei.
Mentre cercava di trovare un suo equilibrio in Italia, un’altra tragedia ha colpito la sua famiglia: il marito di sua sorella è morto, lasciando cinque figli da mantenere. Determinato a sostenere i suoi nipoti, Safi trova lavoro come muratore, un lavoro duro e mal pagato, ma lui non si è mai arreso. Ha imparato da solo le basi della lingua italiana e ha continuato a lavorare, anche se non è stato sempre facile ottenere il giusto compenso. Safi ci racconta che vivere con tanti altri ragazzi, ognuno con la propria cultura e i propri vissuti, non è semplice. Ogni giorno si affrontano sfide legate alla convivenza e all’integrazione di diverse personalità e abitudini. La diversità culturale può arricchire ma anche complicare le dinamiche del gruppo. “Una persona che vive in strada è costretta a imparare molte cose” dice, dimostrando di aver acquisito molte conoscenze dalle sue esperienze difficili. Nonostante sorrida sempre e abbia sempre una battuta pronta, Safi porta dentro molte preoccupazioni che non racconta agli amici e tiene per sé.
“Se ti accoltellano vai in ospedale, sei ferito e perdi sangue, ma dopo un po’ di tempo guarisci; invece, se hai qualcosa di rotto dentro non guarisci più e te lo porti dietro per sempre, in qualsiasi paese tu sia” dice Safi, riassumendo in poche parole il dolore invisibile che molti migranti portano con loro.
Safi ci dice che non si aspetta regali né che le cose cadano dal cielo, ha affrontato tempi duri in Europa senza i documenti, ma non ha mai mollato e non intende farlo. La sua energia e determinazione a continuare, da solo e senza l’aiuto di nessuno, si legano alla speranza di un futuro migliore. Vorrebbe andare a trovare la sua famiglia e costruirsi una vita dignitosa quanto prima.
Il viaggio di Ayoubi
Ayoubi è un ex agente della polizia afghana, costretto a fuggire dal suo paese a causa del regime talebano.
Il suo viaggio è iniziato a piedi dall’Afghanistan, dove ha dovuto evitare le strade conosciute per sfuggire ai talebani. Dopo aver attraversato il confine, Ayoubi ha proseguito il suo cammino fino a raggiungere la Turchia. Qui ha trascorso quasi un anno lavorando per raccogliere denaro e finanziare il proseguimento del suo viaggio.
La successiva tappa del suo percorso lo ha portato in Bulgaria, dove è stato arrestato e detenuto per due mesi. Una volta liberato dalle autorità bulgare, ha continuato il suo viaggio verso la Serbia, dove ha trascorso otto mesi in un campo per migranti. Le condizioni di vita in questi campi sono spesso difficili, ma Ayoubi non ha mai perso la speranza di poter raggiungere una meta sicura.
Dalla Serbia, Ayoubi ha attraversato la Croazia, proseguendo il suo cammino fino all’Italia. Dopo due anni di viaggio estenuante, è finalmente arrivato nel nostro paese. Da dieci mesi vive in Italia, ma la sua situazione è ancora incerta: non ha ancora ottenuto i documenti necessari per regolarizzare la sua presenza. Senza i documenti e un lavoro, al momento Ayoubi non è in grado di permettersi una casa ed è costretto a vivere in un edificio abbandonato, senza luce, riscaldamento e acqua corrente.
Come molti altri migranti, Ayoubi ha lasciato una famiglia in Afghanistan: una moglie e figli che dipendono da lui e la necessità di inviare loro denaro rende ancora più urgente per lui trovare un lavoro stabile.
Ayoubi rappresenta uno dei tanti volti della crisi migratoria: persone che cercano disperatamente un rifugio, una possibilità di ricostruire la propria vita in un luogo sicuro e potersi ricongiungere con i propri cari, che sono state costrette ad abbandonare. La sua storia rispecchia quella di migliaia di individui costretti a lasciare tutto alle spalle a causa di guerre, persecuzioni, povertà, instabilità politica e cambiamenti climatici.
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Perchè questa installazione?
Ci sentiamo di riflettere, a chiusura di queste storie, sul fatto che questi ragazzi, per legge, in quanto richiedenti asilo e protezione internazionale, avrebbero diritto di essere collocati in un progetto di accoglienza, inserimento nella maggior parte dei casi totalmente e gravemente disatteso dalle Prefetture italiane, che pongono una linea di discriminazione tra chi arriva in Italia dalla frontiera marittima e chi da quella terrestre. E così tantissimi richiedenti asilo presenti a Rimini provenienti dalla frontiera terrestre e che hanno percorso per anni la Balkan Route restano in strada, per esempio davanti alla Questura di Rimini o nel Parco Marecchia, in ripari di fortuna.
Per queste persone provenienti da territori di guerra che portano segni di torture ben evidenti impressi sui loro corpi, Rimini è stata città rifugio grazie al progetto di Casa don Gallo, un progetto di accoglienza per persone in condizione di homelessness presso cui alcune delle persone intervistate sono accolte dal novembre 2022. Qui sono state accompagnate nel percorso di formalizzazione della richiesta di protezione internazionale, di iscrizione al SSN e all’anagrafe cittadina, oltre alle cure sanitarie necessarie per la presenza di problemi dermatologici insorti lungo il viaggio.
La libertà di movimento resta a tutti gli effetti un diritto elitario: per una decisione totalmente arbitraria ed eurocentrica, i passaporti centro-asiatici, quelli africani e alcuni dei passaporti sudamericani hanno un valore nettamente inferiore rispetto a quelli dei paesi “occidentali”. Questa decisione divide la popolazione mondiale in due gruppi: chi si vede riconosciuto questo diritto umano (e in certi casi viene pure ammirato, come nel caso del turismo) e chi invece viene visto in automatico come una minaccia alla sicurezza dei paesi “occidentali”. Gli spostamenti di questi ultimi sono sottoposti a controlli e devono essere autorizzati dalle autorità: ciò però avviene raramente e questo limite, insieme alla necessità di migliorare le proprie condizioni di vita, spinge le persone a scegliere altre forme di spostamento, illegali e poco sicure.
Secondo l’attuale sistema di accoglienza, la richiesta di asilo non è un diritto riconosciuto a tutti incondizionatamente, ma uno status che si deve dimostrare di meritare. Solo il richiedente asilo modello (che conduce una vita che ricalca gli stereotipi suggeriti dalle istituzioni) è riconosciuto meritevole di rimanere in Europa. La condizione dei richiedenti asilo resta però precaria anche dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno permanente, che deve essere rinnovato ciclicamente, in quanto la concessione dall’alto di questo diritto è sempre revocabile. Un esempio che viene subito alla mente è il caso dell’educatore di origine algerina Seif Bensouibat che, solo per aver sostenuto la Resistenza Palestinese in una chat privata, è stato rinchiuso in un CPR in vista del mandato di espulsione dal nostro paese.
In Europa gli accordi di esternalizzazione dei confini con Turchia, Libia, Tunisia ed Egitto e l’istituzione dei CPR sono la dimostrazione di come non ci sia un vero riconoscimento del diritto di asilo e della dignità di queste persone. Queste politiche si riflettono anche a livello nazionale: il Protocollo Italia-Albania firmato nel novembre 2023 è di fatto un’operazione propagandistica con il solo scopo di intercettare i migranti prima che tocchino il suolo italiano, a tutto vantaggio dei trafficanti di esseri umani e con l’innegabile rischio che i morti in mare aumentino esponenzialmente.
I campi per migranti nei paesi balcanici, citati da alcuni dei ragazzi intervistati, vertono spesso in pessime condizioni, vicini ai confini e accolgono principalmente migranti afghani, pakistani, siriani e provenienti dal Maghreb, con strutture inospitali e dove le razioni di cibo e l’assistenza sanitaria sono totalmente inadeguate. Chi riesce ad arrivare in Europa è affamato, porta su di sé ferite e malattie contratte lungo il viaggio che difficilmente vengono curate e che si aggravano in fretta a causa delle precarie condizioni igieniche. Le strutture sono sempre sovraffollate: si raggruppano quindi in grandi numeri le persone anche nelle immediate vicinanze dei campi. In queste aree nascono spontaneamente tendopoli e accampamenti nei boschi, mentre altri trovano riparo in edifici abbandonati e disastrati. Nei campi si registra una scarsità di servizi e beni primari dovuta al sovraffollamento. Questi luoghi sono teatro di violenze da parte della polizia e portano a fenomeni di alienazione e spersonalizzazione, perché in questo limbo i rifugiati perdono il contatto con la propria identità.
Quando si parla della Balkan Route ci si imbatte spesso nel concetto di “the game” ovvero una sfida drammatica con la sorte che i/le migranti affrontano nella speranza di superare il confine e raggiungere una zona sicura. Ma l’attraversamento del confine è un gioco complesso e crudele, che puntualmente respinge le persone e le rimanda indietro. Vince chi trova i giusti agganci ed è disposto a rischiare tutto anche solo per una piccola possibilità. I più disperati si appoggiano ai “passeur”, trafficanti di esseri umani che per denaro facilitano il passaggio del confine: tra Serbia e Ungheria oltrepassare il confine vuol dire affrontare barriere di filo spinato montate su lame, che dilaniano i corpi di chi tenta di scavalcarli.
Occorre segnalare che i confini politici non sono né naturali né neutri, ma creati dai governi attraverso accordi per ragioni di convenienza reciproca. In questo caso specifico, è stata delineata una linea di separazione tra l’Europa occidentale e l’Europa orientale, con la funzione di respingere coloro che non sono desiderati. Non è neutra nemmeno la decisione di esternalizzare i confini dell’Unione Europea all’interno dei paesi dell’est, visti anch’essi come paesi di serie B e di transito che detengono meno potere rispetto alla controparte occidentale: il potere che gli viene concesso, lo esercitano con violenza contro coloro che, in questa scala di gerarchie di potere, sono più deboli: i/le migranti.
L’intento di questo progetto di interviste è mostrare e denunciare le storture e le mancanze di un sistema che ha necessariamente bisogno di essere rivisto, con l’obiettivo di sviluppare un sistema di accoglienza che metta al centro la persona e i suoi bisogni, un sistema che non guardi ai richiedenti asilo solo come a numeri di cui avere paura o a manodopera da sfruttare, ma che ne riconosca la dignità di esseri umani. Alle persone va riconosciuto il diritto di muoversi liberamente, senza essere trattate come criminali solo perché provenienti da aree del mondo che noi abbiamo stabilito essere “sbagliate”, “pericolose” e “incivili”. La gestione degli arrivi dei/lle profughi/e ucraini sul nostro territorio ci ha dimostrato che è possibile attivare risposte sull’accoglienza efficaci e positive.
Dedichiamo questa installazione a Satnam Singh, lavoratore indiano ucciso mentre lavorava nelle campagne laziali.
La dedichiamo a Bafode, Ebere, Romanus, richiedenti asilo e braccianti agricoli uccisi nel 2018 a Foggia di ritorno dai campi di pomodoro.
Non ci può essere pace senza giustizia!
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La mostra nasce su proposta di Anna, studentessa universitaria, che ha voluto approfondire il tema della violenza del confine con un focus specifico sull’attraversamento della Balkan Route.
Fotografie di Simone Rosa
Grafiche di Elisa Valli
Progetto realizzato da Rumori Sinistri ODV, Casa don Andrea Gallo #perleautonomie, Casa Madiba Network