da IL MANIFESTO dell’8 Aprile 23
Il mio viaggiare è stato tutto un restare qua, dove non fui mai». Potremmo prendere a prestito da Giorgio Caproni quest’immagine che descrive la traiettoria della compagnia Motus, che dopo oltre trent’anni di attività lancia per la prima volta un appuntamento nella propria città, Rimini.
Da mercoledì 12 a domenica 16 aprile Supernova invaderà il «salotto buono», il Teatro Galli e alcune zone limitrofe del centro storico, per un «happening» che proporrà una varietà di gesti artistici di gruppi sodali, da storiche formazioni romagnole a ospiti stranieri da scoprire. Si tratterà di «forzare» alcune barriere, sia concrete che intangibili, in parte in continuità con i due anni di direzione artistica del festival di Santarcangelo, per portare in città la visione di una ricerca contemporanea spesso mancante.
Al cuore delle giornate, il doppio incontro «Annusa i fiori finché puoi». Insieme a Cristina Kristal Rizzo, mk, Kinkaleri, Masque, Ateliersi, Fanny & Alexander, Giorgina Pi, Nanou e lo sguardo di Laura Gemini, ci si interrogherà su quali siano oggi gli spazi vitali per l’indipendenza a teatro.
Ne abbiamo parlato con i Motus, Daniela Nicolò e Enrico Casagrande, che abbiamo raggiunto su Zoom.
In questo incontro sembra esserci un doppio binario: da una parte alcune rivendicazioni legislative e dall’altra uno sforzo immaginativo. Come lo avete preparato?
Daniela Nicolò: È quasi un anno che ci stiamo incontrando virtualmente con le compagnie che sentiamo più vicine per ragionare su questi temi, e quando abbiamo avuto l’incarico per Supernova abbiamo pensato che sarebbe stato il contesto ideale per rilanciare pubblicamente il confronto. La questione centrale per noi è come possa esistere, oggi, una compagnia indipendente, una cosiddetta «impresa di produzione» come ci definisce il Ministero. Una realtà di gruppo come la nostra, che ha un suo ufficio, delle persone stipendiate e così via, soffre molto delle restrizioni sempre più malate del sistema teatrale. Vengono chiesti solo numeri, date, borderò senza mai valutare la qualità, spingendoci nella condizione di dover produrre senza un tempo vero per la ricerca. Il punto è preservare la libertà di scegliere i temi, i tempi e le persone con cui lavorare, se invece si diventa un artista associato e stipendiato da uno stabile tutte le difficoltà organizzative vengono meno, ma si rinuncia a quella libertà. Entrando nella logica dei bandi viene rimosso quell’elemento selvatico, quell’esperienza di inventare strade non tracciate. Il clima politico-sociale è cambiato, siamo nel neoliberismo più totale e gli artisti si scontrano con il concreto problema della sopravvivenza perché mancano i sostegni. Tutto questo toglie tempo e energie, e quella spinta a inventare.
Enrico Casagrande: Le realtà che partecipano all’incontro sono a cavallo tra la danza e il teatro e hanno le loro radici nei ’90, quando la possibilità di essere una compagnia indipendente era più accessibile. Quello che ci chiediamo è, la generazione nata dopo i duemila, come può pensare o immaginare di diventarlo? Il sistema spinge verso un forte individualismo, l’artista deve pensare a sé come singolo perché costruire un gruppo è quasi impossibile. C’è una forte tensione che porta alla competizione, con l’impossibilità di fallire e di fare ciò che veramente viene da dentro. Si cercano invece meccanismi compiacenti e compiaciuti per non soccombere. Mi sento di parlare di questa generazione perché ci siamo sempre presi l’impegno di conoscerla e di lavorarci insieme.
Nell’ideazione di Supernova avete lavorato molto sugli spazi, che ruolo avranno?
E.C. Per noi era importante che questa prima edizione partisse dal centro, abbiamo avuto l’idea di «occupare» il Galli aprendo sale che non sono mai state accessibili al pubblico e da questo punto di vista ci sarà un’eredità per il futuro. Non ghettizzando l’iniziativa in luoghi più periferici sono emersi ancora di più i nodi, le difficoltà nel confronto con le istituzioni. Dipendenti e impiegati che chiaramente non sono abituati uscire dalle loro regole e ruoli, ad esempio. Vedremo quale sarà la risposta di un pubblico anche non «nostro»
D.N. Abbiamo poi coinvolto Casa Madiba, una realtà antagonista riminese che si prende cura dei senzatetto e porta avanti un’attività politica transfemminista. Ci sarà un laboratorio di Elisabetta Consonni con gli abitanti di cui molti richiedenti asilo. Un’idea di lavoro col territorio che abbiamo sperimentato nei due anni a Santarcangelo.
E.C. Per fortuna abbiamo sempre dialogato con diversi mondi e siamo contenti di poter essere un anello di congiunzione, rispetto a un’idea curatoriale di «pesca» degli spettacoli che crea a volte un consumismo della pratica artistica, c’è il forte rischio di creare vetrine in cui anche istanze importanti diventano una moda.
Presenterete la vostra performace «Of the nightingale I envy the fate», secondo spin-off da «Tutto Brucia». Come ci avete lavorato?
D.N. Siamo tornati sulla figura di Cassandra su cui avevamo lavorato già nel ’94 partendo da un romanzo di Christa Wolf. C’è questa figura fragile e volatile dell’usignolo incarnata da Stefania Tansini che però ha la caparbietà e l’ostinazione di dire No.
E.C. Rispetto a produzioni più grandi diventa veramente importante quella formula di gruppo di cui parlavamo all’inizio. È un processo in cui la regia non scompare ma si diluisce.