“per diventare padron* del tempo
E poterlo cambiare”
Ricostruire Rimini dentro e oltre il turismo. Un contributo verso l’undicesimo anno di Casa Madiba Network
Finita la stagione estiva, è tempo di bilanci per una città come Rimini cresciuta attorno all’industria del turismo. Mentre l’amministrazione e le imprese locali fanno la conta delle presenze cercando di individuare soluzioni per il rilancio del settore, pensiamo sia importante avviare una riflessione più complessiva sulle trasformazioni urbane e sociali della nostra città. Il rischio non solo è quello di non cogliere i profondi cambiamenti in corso nel turismo, ma anche di perdere di vista il suo impatto allargato sugli spazi urbani e sulla molteplicità di soggetti e bisogni che li attraversano. Si tratta di temi che non possono essere confinati a gruppi ristretti, quasi sempre guidati da logiche di profitto, ma che richiedono una discussione allargata e delle sperimentazioni coraggiose.
Di seguito alcune riflessioni che, come Casa Madiba, abbiamo raccolto negli ultimi mesi attraverso azioni in città e incontri con attori urbani molto diversi tra di loro. Speriamo possano essere solo l’inizio di un confronto pubblico quanto mai urgente.
Il turismo a Rimini: la fine di un’epoca?
È difficile non pensare al turismo quando si nomina Rimini. La città, soprattutto dal Dopoguerra in poi, si è sviluppata in funzione dei flussi di visitatori che a migliaia ogni estate affollano la città. Il turismo non costituisce solamente uno dei principali settori dell’economia locale, ma è stato anche il fulcro dello sviluppo urbano – basti pensare alla progressiva privatizzazione dell’arenile o alla più recente rigenerazione del lungomare.
Per anni Rimini ha vissuto un’epoca felice in cui la città d’estate – quella che si è sviluppata a ridosso della spiaggia, fatta di negozietti di chincaglieria e strutture alberghiere a conduzione familiare – era nettamente distinguibile dalla città d’inverno – separata dalla prima dalla linea ferroviaria. Famiglie in vacanza per settimane e fanatici delle discoteche costituivano le due principali tipologie di viaggiatori che si affiancavano ai e alle residenti, per lo più originari del posto. Come sempre, non è tutto oro quello che luccica. Anche negli anni migliori, ci sono sempre stati problemi sociali maturati dentro e oltre l’economia del turismo. Il lavoro gravemente sfruttato – delle lavoratrici dell’est o dei giovani studenti della zona – e la privatizzazione degli spazi pubblici – con i tratti di spiaggia libera sempre più rosicchiati dalle concessioni a discapito delle Spiagge Libere– sono due esempi lampanti e ben noti a tutti gli e le abitanti della città, rispetto ai quali molto spesso la politica ha fatto finta di nulla o, peggio, ha contributo attivamente.
In questi anni, però, una serie di trasformazioni hanno cambiato alcune caratteristiche del turismo in generale, e quindi anche la sua territorializzazione nel riminese in particolare. Se da un lato abbiamo assistito all’espansione del settore tanto che oggi contribuirebbe al 13% del PIL nazionale, dall’altra sono cambiate le abitudini di consumo dei visitatori, con una disponibilità economica spesso minore che si riflette in una contrazione nel numero dei giorni di pernottamento. Le vecchie rotte turistiche, spesso sature, sono state affiancate dall’espansione verso i piccoli borghi o nuove destinazioni estere. Le strutture alberghiere di un tempo risultano inevitabilmente inadeguate rispetto a degli utenti che sempre di più oggi fanno ricorso alle piattaforme digitali per la ricerca di alloggi.
Ai vecchi problemi della città, quindi, se ne sono aggiunti di nuovi: l’accesso alla casa è diventato estremamente problematico, soprattutto in una contesto come Rimini dove una fetta sempre maggiore del patrimonio immobiliare privato viene sottratta ai e alle residenti a favore dell’offerta turistica e dove le politiche pubbliche latitano; molte strutture ricettive, inadeguate rispetto al mercato, vengono abbandonate o messe in vendita, con l’inserimento sempre massiccio di organizzazioni malavitose dedite a operazioni di riciclaggio; le zone periferiche soffrono di un abbandono strutturale, prive di servizi e di una progettazione adeguata.
Grandi problemi, piccole soluzioni
Nonostante un certo negazionismo, secondo il quale bisogna dire sempre che va tutto bene altrimenti si mette in pericolo il business as usual, siamo convinti che molti dei problemi elencati siano chiari tanto all’amministrazione quanto agli imprenditori locali. Da una parte, si è tentato di destagionalizzare il turismo, puntando sulla fiera e sugli eventi. Ora è la volta dello sport, con l’illusione che una tappa del Tour de France o una fiera del Wellness possano fare di Rimini una destinazione ambita. Una pretesa che però deve fare i conti con fattori che vanno ben al di là del turismo, basti pensare all’impatto che sta avendo il cambiamento climatico in Romagna in questi ultimi anni, tra alluvioni e mucillagine. Dall’altra, si è cercato di svecchiare il brand Rimini proponendo di volta in volta la commercializzazione del suo patrimonio storico e sociale. L’operazione-Fellini tentata dalla giunta Gnassi è probabilmente l’esempio più lampante tanto di questo tipo di politiche quanto del loro fallimento.
Parliamo spesso di interventi superficiali che non affrontano in maniera strutturale e radicali i problemi che rapidamente abbiamo elencato poco prima. Al cambio di abitudini dei visitatori – riflesso di un impoverimento sociale diffuso e di una trasformazione dei tempi di lavoro e di vita – si pensa di far fronte tramite l’investimento su un segmento specifico, quello del turismo di lusso. Per il recupero delle strutture abbandonate si propongono soluzioni come quelle del cambio di destinazione d’uso degli immobili o della permuta con terreni edificabili che senza una pianificazione complessiva rischiano solo di essere controproducenti – molti albergatori, ad esempio, continuano a non investire nelle proprie strutture proprio perché sono in attesa di possibili offerte compensative.
Qualche proposta per una città inclusiva
Da parte nostra, in questi anni abbiamo intercettato numerosi e diversi soggetti che rispetto a questi processi non hanno mai avuto voce in capitolo e che si sono trovati troppo spesso schiacciati da decisioni prese da altri. Parliamo di lavoratrici e lavoratori del turismo e della ristorazione costretti a dormire per strada perché espulsi dal mercato immobiliare; di cooperative locali che provano a mettere in piedi progetti sociali ma che devono sfidare anche il disinteresse della politica oltre che le difficoltà economiche di un welfare sempre più impoverito; di homeless e sex workers sempre più stigmatizzati rispetto a un progetto di città vetrina.
Questi incontri ci hanno interrogato non solo rispetto al modo in cui leggiamo le trasformazioni in corso a Rimini, ma anche sulle possibili azioni da mettere in campo. In maniera preliminare, possiamo indicare due conclusioni a cui ci hanno portato questi incontri e queste riflessioni.
La prima è che non si tratta né di criminalizzare né di idolatrare il turismo. La mobilità rappresenta non un pericolo ma un’opportunità, sebbene sappiamo benissimo che non sia tale per tutte e tutti. Nel caso del turismo parliamo spesso di una mobilità iper-commercializzata ma non pensiamo che la soluzione sia prendersela con i soggetti in movimento, piuttosto vanno messi nel mirino i processi di sfruttamento di questa mobilità. La seconda conclusione è strettamente collegata alla prima. Per ripensare il turismo bisogna andare oltre il turismo, occorre partire dalla città come organismo complesso e molteplice, fatta di una pluralità di soggetti, bisogni e processi. Se gli spazi urbani sono sempre di più degli hub di flussi – commerciali, tecnologici, umani – allora dobbiamo costruire una città in grado di gestirli e all’interno della quale anche il turismo possa convivere con le sue altre “anime”. Le operazioni di maquillage non basteranno a fermare il cambiamento climatico o a dare un tetto a tutte e tutti.
Quello di cui abbiamo bisogno sono una visione inclusiva di città e delle sperimentazioni coraggiose da mettere in campo. Pensiamo che una politica del genere non possa basarsi sull’uomo solo al comando o sulle piccole lobby. C’è bisogno di uno spazio di discussione che accolga e metta al centro la voce e le esperienze di chi invece è sempre stato tagliato fuori dall’immaginazione urbana. Ed è attorno a questi nodi che nei prossimi mesi vorremo aprire un cantiere cittadino. Due ultimi esempi per spiegarci meglio.
Avere una visione inclusiva di città vuol dire ripensare i suoi spazi al di là delle mere logiche di profitto o di interesse elettorale. Vuol dire riscoprire soggetti e processi marginalizzati. Pensiamo al mare, ridotto a spazio di intrattenimento invece che concepito come luogo di vita, per tutti, umani e non umani. Come potrebbe essere vissuto il mare? Come potremmo garantire un accesso a tutte e tutti? Come poter convivere con forme di vita non-umane? Forse inizieremmo a capire allora che il problema non è tanto costruire piscine a riva per compensare il rischio della mucillagine ma imparare a interagire con l’ecosistema in cui abitiamo.
Sperimentare in maniera coraggiosa vuol dire adattare gli strumenti legali ed economici a disposizione per sondare alternative alla semplice ricerca da parte del pubblico della disponibilità del privato a investire. In che modo l’amministrazione può supportare esperienze virtuose e sociali del territorio? Abbiamo visto recentemente come anche il Comune possa investire delle risorse, di cui una parte proviene proprio dal turismo, per acquistare immobili abbandonati – l’ultimo caso è quello dell’area Forlani. Perché non pensare a un carattere sociale di questi investimenti? Ad esempio, acquisendo strutture da trasformare in progetti sociali di accoglienza e lavoro in collaborazione con associazioni, percorsi partecipati e realtà sociali del territorio?
Casa Madiba Network
7 dicembre 2013 / 7 dicembre 2024